Virginia viveva da sola, in due stanze in affitto. Entrando in casa, ti accoglieva la penombra di una lampadina fioca ed un odore di chiuso, di latte scaldato, di polvere.
Ormai da tempo per Virginia tenere in ordine la casa, ed anche se stessa, era diventato un problema: le capitava di indossare una gonna sporca senza accorgersene, di fare fatica ad infilare le chiavi di casa nella serratura, a trovare gli oggetti che le servivano. Si sentiva sempre più debole e sola. Fino a quando ce l’avrebbe fatta? Per rassicurasi cercava di negare la realtà: la pentola che non trovava più gliela avevano rubata i vicini, il frigorifero rotto non era necessario cambiarlo, e poi tutte quelle medicine servivano davvero? Lei non era malata, era sempre stata una donna forte, sana. Lei in casa sua aveva tutto, semmai mancava qualcosa era colpa dei vicini, che le volevano male: è facile approfittarsi di una donna sola! Ma glielo avrebbe fatto vedere a tutti: lei non era sola!
Così Virginia cominciò a trattare una bambola che teneva sul letto, una grande bambola, come le facevano un tempo, con il viso di coccio e il vestito di raso, come fosse una sua figlia. La accudiva come fosse una bambina piccola, la cullava, le parlava, le dava il latte con il biberon, quando usciva la portava con sé: “E’ troppo piccola, non posso lasciarla da sola!” Era molto attenta a come “gli altri” guardavano lei e la sua ‘bambina’ , la bambola era anche diventata il modo per non essere più una povera vecchia invisibile, un modo per incontrare lo sguardo degli altri, come è avvenuto con alcuni giovani della Comunità di Sant’Egidio, che l’hanno conosciuta mentre camminava per la strada con la sua bambola in braccio. “Come si chiama? Maria”. Così hanno cominciato a parlare con lei, ad andarla a trovare nella sua casa, ad aiutarla nelle necessità della vita quotidiana senza scomporsi troppo per la presenza di ‘Maria’.
Le visite a casa di Virginia si moltiplicarono. Giorno dopo giorno, era sempre più chiaro che Virginia non riusciva più a compiere le azioni – anche le più semplici – della vita quotidiana da sola: come prendere le medicine giuste, se non ricordo che ore sono, e se le hai già prese? e come prepararsi da mangiare, se le ricette più abituali, quelle che Virginia cucinava così bene, sono come cancellate dalla mente? E dove trovare i vestiti, le scarpe, che la malattia nascondeva ogni giorno in luoghi sempre diversi e incogniti? Eppure Virginia cercava di non mostrare le sue difficoltà agli amici della Comunità di Sant’Egidio che gli erano diventati cari: non ricordava bene i loro nomi, ma nei loro visi riconosceva quell’amore che aiuta a vivere ed era felice di trascorrere del tempo con loro.
Virginia venne invitata a una piccola vacanza ai castelli romani, insieme ad altri anziani trasteverini. Da poco erano ultimati i lavori della casa famiglia per anziani di via Fonteiana. Una casa, donata alla Comunità di Sant’Egidio dal signor Manlio Isabelli, pensata per accogliere anziani in difficoltà. Virginia arrivò nella casa di via Fonteiana in un bel pomeriggio di Settembre. Le piacque tutto: il giardino con due palme, la palazzina anni Trenta, l’ambiente luminoso, pulito e sereno.
Subito successe un cosa imprevedibile: “Maria” venne semplicemente lasciata su di una sedia e dimenticata. E per Virginia iniziò una vita nuova: la presenza continua e delicata di amici ed operatori addolcivano le sue difficoltà. Le continue dimenticanze non pesavano più, le sue incertezze non erano motivo di giudizio, di derisione. Il mondo non era più popolato di “nemici” che nascondevano le cose, ma di volti amici di cui non era sempre chiaro il nome, ma – seppure diversi – avevano tutti la stessa espressione piena di affetto.
Virginia ha vissuto nella casa della Comunità di Via Fonteiana a Roma gli ultimi anni della sua vita. La malattia non ha vinto la sua gioia di vivere, anche quando la debolezza si è fatta più evidente.
Dipendere dagli altri, sempre di più, in tutto, non è stata una condanna, ma una condizione in cui più forte si è mostrato l’affetto di chi la circondava e che le ha comunicato la certezza di un amore che non finisce. Virginia questo lo ha capito bene. Certo, l’Alzheimer non le permetteva di spiegarlo con un discorso, ma la sua serenità – e anche la lunghezza dei suoi anni – hanno parlato a tanti della forze terapeutica dell’amore. E questo ne ha fatto anche una maestra: maestra di quell’abbandonarsi fiducioso all’amore degli altri, che nel Vangelo è espresso dall’esortazione di Gesù a farsi piccoli.
Nella Giornata Mondiale dedicata ai malati di Alzheimer, ci è caro ricordarla, con l’affetto di sempre.
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