Didier Eribon, sociologo e filosofo di fama internazionale, autore di opere profonde e provocatorie come Ritorno a Reims, affronta in questo libro un tema doloroso e spesso taciuto: la vecchiaia e l’istituzionalizzazione dei nostri cari. Attraverso un racconto personale e toccante, Eribon esplora il declino fisico e sociale della madre, soffermandosi sulle implicazioni emotive e morali legate alla scelta di inserirla in una casa di riposo.
Eribon ci guida in una riflessione che non si limita alla descrizione di un caso individuale, ma diventa denuncia di una tragedia collettiva: la disumanizzazione e la perdita progressiva di dignità che troppo spesso accompagna l’ultima fase della vita. Attraverso parole intrise di dolore, l’autore mette a nudo la contraddizione tra il desiderio di proteggere i propri cari e la consapevolezza delle sofferenze che derivano dall’affidarli a un sistema istituzionale incapace di garantire dignità e autonomia.
Una delle citazioni più emblematiche, “Il volere c’è, il potere no. E alla fine, a forza di non potere più, non si vuole più“, racchiude in poche parole il dramma dell’impotenza che accomuna anziani e familiari. La casa di riposo diventa il simbolo di una resa: non solo delle persone che vi entrano, ma anche di chi le accompagna in quel percorso, spesso contro la propria volontà e la loro.
Eribon non si sottrae all’autocritica. Scrive: “Ho balbettato queste parole assurde: ‘Non preoccuparti. Qui si prenderanno cura di te. Vedrai che starai bene’. Oggi mi vergogno di aver pronunciato quelle frasi fatte”. In queste righe si avverte tutto il peso del senso di colpa e della disillusione: frasi di circostanza che mascherano malamente la verità, rivelando un gioco di rassicurazioni tanto vuote quanto necessarie per attenuare il dolore reciproco. Come sottolinea l’autore, queste parole sono tradite dal tono “di inusitata dolcezza”, percepito dall’ascoltatore come una conferma della loro falsità.
La descrizione dell’ingresso nella casa di riposo è un momento cruciale del libro. Eribon scrive che “entrare in una casa di riposo segna, quasi sempre, una rottura radicale nella vita di una persona. Non si tratta di un semplice trasloco […] ma di uno sradicamento dal passato e dal presente, uno stravolgimento totale che provoca uno ‘shock’ emotivo dal quale è difficile sottrarsi”. Con estrema lucidità, ci ricorda che ogni anziano che varca la soglia di una casa di riposo sa che quella sarà l’ultima dimora, un pensiero che aleggia come un’ombra ineludibile.
In questa riflessione, Eribon richiama le “istituzioni totali” descritte da Erving Goffman: “Il luogo di residenza e di lavoro di gruppi di persone che – tagliate fuori dalla società per un considerevole periodo di tempo – si trovano a dividere una situazione comune, trascorrendo parte della loro vita in un regime chiuso e formalmente amministrato“. Sin qui Goffman, citato da Eribon, che poi prosegue: “Il carattere specifico della casa di riposo, rispetto alle altre istituzioni (prigione, ospedale psichiatrico…), è che non si tratta di un ‘considerevole periodo di tempo’, ma di un luogo di residenza definitivo (e talvolta per un periodo assai breve, poiché la morte pone presto fine alla ‘reclusione’). E quel carattere totalitario si sarebbe accentuato di giorno in giorno (…). Mia madre aveva perso non soltanto l’autonomia, ma la libertà e persino lo status di persona. Perché di questo si tratta: la spersonalizzazione fa sì che una persona anziana non sia più una persona“.
La quotidianità nella struttura viene raccontata con un realismo struggente. Eribon nota che il luogo “somigliava a un asilo per persone adulte ritornate bambine, ma senza più un futuro davanti“. Questa frase rivela non solo la perdita di autonomia, ma anche la mancanza di una prospettiva che possa dare significato al tempo che rimane.
Un altro tema che emerge è la sociabilità forzata. L’autore osserva: “Trasferirsi in una casa di riposo non significa solo entrare in un mondo popolato da persone molto anziane […] significa anche entrare in una sorta di sociabilità imposta”. Per molti anziani, questa è una forma di violenza silenziosa, che li priva della libertà di scegliere chi frequentare e come trascorrere il proprio tempo. Non è un caso che Norbert Elias, citato nel libro, descriva gli ospizi come “deserti di solitudine”.
Nell’ultima parte del libro, anche attraverso una serie di riferimenti ad opere narrative che hanno affrontato il tema della perdita e del distacco dai propri cari, Eribon, dopo la morte inaspettatamente prematura della madre nella casa di riposo, ci trascina nel suo luogo più oscuro, quello in cui i sensi di colpa per aver dimenticato la classe sociale “di appartenenza” si mescolano ai ricordi, tracciando un percorso che ognuno può seguire per “ricordare” i propri genitori: “Piangere la propria madre significa piangere la propria infanzia, la propria giovinezza perduta, scrive Albert Cohen e niente mi pare più vero di questa frase“.
Con una prosa diretta e dolorosamente sincera, Vita, vecchiaia e morte di una donna del popolo è un invito a riflettere sulle nostre responsabilità collettive e individuali nei confronti della vecchiaia. Eribon non ci offre risposte semplici, ma solleva domande fondamentali: è davvero inevitabile che i nostri cari trascorrano l’ultima fase della loro vita in condizioni che annullano la loro dignità? Quali alternative siamo disposti a costruire per garantire una vecchiaia più umana e rispettosa delle loro volontà?
Leggere questo libro significa confrontarsi con il nostro rapporto con la vulnerabilità e il tempo, in una società che tende a occultare la sofferenza dietro un velo di convenzioni e rituali. È un libro che ferisce, scuote e ci obbliga a guardare in faccia una realtà troppo spesso ignorata.
Case di riposo o deserti di solitudine? Riflessioni su dignità e libertà nella 'Vita, vecchiaia e morte di una donna del popolo' di Didier Eribon
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