Girando per il web si trovano a volte delle perle di sapienza, in questo caso dettate dalla dura esperienza di condivisione di un ricovero ospedaliero. Scrive Franco, un simpatico toscano, da suo letto di ospedale in una lettera riportata da Valentina Caffieri *:
“A seguito del mio ricovero d’urgenza in ospedale, prima a Livorno al reparto UTIC e successivamente a Portoferraio, dopo aver vissuto vicino a me almeno quattro casi particolari, una considerazione a caldo (nel senso che sto scrivendo e sono ancora in ospedale) che mi viene da fare è:
Lasciamo ai nostri vecchi la dignità di morire a casa, tra i propri affetti e senza che mani estranee li tocchino, frughino nella loro vita, nella loro dignità.”
Non fraintendetemi! Mani esperte e professionali, che con amore, compassione, professionalità e spirito altruistico fanno del bene, aiutano e salvano persone sofferenti, indifese e bisognose.
Non è questo il punto.
Il punto é che una volta la famiglia era unita in tutto il ciclo della vita.
Un bambino nasceva in casa, viveva con la famiglia intorno, fatta di nonni, di zii, di familiari che si prendevano cura di lui, poi sempre la Famiglia andava avanti come poteva, e quando un vecchio era vicino a lasciare la vita, la famiglia era unita per accompagnarlo in questa inevitabile tappa finale.
Questo momento di dolore, fisico e mentale, per il vecchio (scusate se non lo chiamo anziano!) e per i familiari, era vissuto tutti assieme nella stessa casa che l’aveva accolto e coccolato e dove lui aveva accolto e coccolato a sua volta ogni altro componente.
Oggi si demanda ad un ospedale (struttura infinitamente migliore di come poteva essere qualche anno fa, ammesso che ci fosse) la nascita, la sofferenza e la morte.
Ma se per primi due casi è indiscutibilmente la soluzione migliore, oggi con ostinazione si affida alla struttura ospedaliera quest’ultima fase “spiacevole” dell’esistenza umana.
Oggi si delega. Principalmente per egoismo dei familiari che non vogliono vedere la morte da vicino, che non sono preparati al distacco e vogliono a tutti i costi avere ancora con se il caro.
Diamo dignità ai nostri cari vecchi che stanno per lasciare questa vita.
A Livorno nei tre giorni di ricovero ho visto quattro persone lucide uscire di senno. Uno in particolare di 95 anni, che appena è entrato da buon toscano ha chiacchierato e raccontato la propria vita alle infermiere di turno. Gli sono bastate due notti ed era fuori di testa. Spaesato non sapeva più chi fosse, non riconosceva più il proprio letto, la propria casa, voleva fortemente essere a casa, urlava e non si capacitava del perché fosse li.
A detta del personale ospedaliero è la fine di tutti i vecchietti che entrano in ospedale.
E allora perché? Ammesso e non concesso che un ultra novantenne esca dall’ospedale vivo, quale sarà la qualità della vita sua e dei familiari dopo che gli è stata artificiosamente allungata la vita?
Perché non ripensiamo ad una sanità più vicina alle famiglie, alle case delle famiglie, con una unità medica e infermieristica specializzata, oltre che sul piano medico anche sul piano psicologico, che con discrezione entra nelle nostre case, accompagna con terapie del dolore e con un supporto psicologico le famiglie a questo inevitabile passo. Partendo dal medico di base che oggi sembra inchiodato alla poltrona del proprio ufficio. Il medico di base deve andare nelle case, conoscere le famiglie, assisterle e stargli vicino.
Il tutto pensando al fatto che gli ospedali sono sempre sovraffollati, che i medici devono ogni giorno giostrarsi i posti letto facendo spostamenti di reparto e quant’altro, pensando al lavoro del medico che si potrebbe concentrare maggiormente sul resto dei casi.
Vorrei non essere frainteso. Le mie sono riflessioni a caldo durante una esperienza in due ospedali, di pochi giorni.
Non voglio essere preso per uno che vuol sbarazzarsi dei ‘vecchi’, o preso per uno che vuol far risparmiare lo stato tagliando a discapito di qualcun altro, di una categoria ormai non più produttiva! No! Tutt’altro! Sostengo che i vecchi sono una grande risorsa umana della società e della famiglia in particolare.
Sarà che sono decenni che mia mamma continua a dire che quando sarà arrivata la propria ora vuole andarsene senza accanimenti terapeutici, sarà che vivere da vicino queste esperienze in qualche modo ti sensibilizza.
Io dico solo: l’immortalità non esiste, ripensiamo la sanità per questa fase della vita.
* Tratto dal Blog Ostinata Mente di Valentina Caffieri http://ostinata-mente.com.unita.it/politica/2013/10/30/132/
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