Roma, 15 ottobre 2017.
Oggi i romani ricorderanno con la Comunità di Sant’Egidio e con la Comunità Ebraica di Roma, quel sabato nero di settantaquattro anni fa, quando 1.024 figli di questa città, furono strappati alle loro case per essere deportati ad Auschwitz. Giustamente Questa manifestazione resta una delle poche occasioni di memoria collettiva della città su quei tragici eventi. Bisogna allora alimentare quella memoria. E lo facciamo oggi con la “piccola storia” di una donna, testimone di quei fatti, che ci ha lasciato l’impronta lieve degli umili, che cambiano “la Grande Storia” lavorandone le profondità, come le corrente carsiche di cui parlava Giorgio La Pira, con gesti di solidarietà e di coraggio sconosciuti ai più.
Marisa Gigli (più conosciuta come Marisa Saulle), una cara amica della Comunità di Sant’Egidio, scomparsa qualche anno fa, aveva 14 anni quel 16 ottobre del 1943, quando durante l’occupazione nazista, scoccò l’ora della razzia per gli ebrei romani. Aveva 14 anni ed abitava nel popolare rione di Testaccio, porta a porta con tante famiglie di ebrei, che ancora oggi costituiscono una nutrita comunità nella zona. Marisa, era la primogenita di tre fratelli, figlia di Spartaco Gigli e Bice Di Leggi ed abitava con la sua famiglia nell’appartamento di proprietà del nonno materno Antonio, in Via Bodoni, 6 in un condominio affollato, composta da nove scale, alla scala E interno 1. La sua famiglia era molto conosciuta nel rione, perché erano commercianti: il nonno Antonio aveva un negozio di abbacchi e polli e otto banchi al mercato della piazza (uno per ciascun figlio). Marisa raccontava che la mattina del 16 ottobre del ’43 uscì per andare a lavorare, molto presto (faceva l’apprendista da una sarta che stava nello stesso lotto). Andava a fare le consegne, ma prima andava a portare il pane al forno per cuocerlo. Uscita sulla Via Marmorata, vide i tedeschi che sbarravano la strada e cominciavano a circondare il palazzo; si avvertiva da lontano un subbuglio, dalla parte del ghetto, la gente che scappava e degli spari. Vedendo le SS, capì subito la gravità di quello che stava accadendo. E cominciò a correre per le scale del lotto per avvertire gli ebrei di nascondersi, gridando dalla tromba delle scale: “Scappate che ci sono i tedeschi!”. Ha avvisato così tutti quelli che poteva. Nel condominio abitavano molti ebrei, che avvertiti del pericolo riuscirono a fuggire; fece appena in tempo a tornare a casa che, dopo poco, i tedeschi bussarono anche alla porta di casa sua e della zia. A casa della zia Maria Di Leggi, si erano rifugiati due ebrei e li avevano nascosti nello sgabuzzino della cucina (“due ragazzoni alti e giovani” diceva Marisa). Il padre di Marisa (Spartaco Gigli), ebbe l’idea di aprire la porta, vestito con la divisa della milizia fascista e accolse i tedeschi con il saluto militare; questi risposero al saluto, fermandosi sulla porta e se ne andarono via evitando la perquisizione. Verso sera i due ragazzi ebrei scapparono, calandosi dalla finestra e aggrappandosi alla grondaia. Come loro, molti riuscirono a salvarsi, grazie alla complicità dei vicini. I testaccini avevano dei segnali per avvisare dell’arrivo dei tedeschi: siccome quando si avvicinavano, il primo rumore era il chiasso dei loro stivali per le scale, la gente si metteva a canticchiare “zoccoletti, zoccoletti…”: era un segnale di pericolo. Inoltre le scale del lotto avevano (ed hanno tuttora) delle terrazze comunicanti: gli ebrei le utilizzavano per fuggire, salendo sul terrazzo da dove si trovavano e scendendo da una scala qualsiasi fino all’uscita. Da allora Marisa ha cercato di sapere che fine aveva fatto quei due ragazzi, ma nessuno della famiglia ha avuto loro notizie. Anche recentemente nel quartiere, si è cercato di raccogliere qualche frammento di questa storia, ma molti dei protagonisti di allora non ci sono più. Qualcuno però si ricorda della famiglia Di Leggi: le sorelle Dell’Ariccia, anche loro scampate al rastrellamento, perché soccorse dai vicini, si ricordano di questa bella famiglia romana e delle ragazze, Marisa e Teresa, con cui giocavano nel cortile e ricordandole dicono: “Sì, in tanti qui a Testaccio ci hanno aiutato in quei giorni tristi, forse perché eravamo poveri o perché ci conoscevamo da sempre. Siamo cresciuti insieme come un’unica famiglia”.
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